1208182476

Anni di plastica

05 novembre 2020
14 min di lettura
05 novembre 2020
14 min di lettura

Rifiuti, oggetti abbandonati, scarti che per quanto si tenti di ignorarli, nasconderli e scansarli pervadono le nostre vite di cittadini-consumatori. Dalle strade delle città ai sentieri naturali, dalle zone industriali alle spiagge, dai corsi d’acqua al mare poggiano quei beni scartati, ora spazzatura. La moderna società usa-e-getta somiglia sempre di più a Leonia, la città invisibile di Calvino, che “rifà se stessa tutti i giorni”, dove si è portati ad acquistare di continuo “cose nuovi fiammanti” e a buttare via “i resti di ieri” con altrettanta regolarità e leggerezza. Spazzatura disordinata che si ammucchia su spazzatura vecchia. A volte talmente fine e piccola che non è percepibile ad occhio nudo. Rottami orbitano nello spazio confondendo il cielo; mari lontani su cui si formano isole, resort senza stelle, di spazzatura. Distanza che non è e non deve essere sufficiente a mantenerci indifferenti ad un problema che cresce nel tempo.

1059165378

Rifiuti abbandonati agli argini dei fiumi

Il cercatore di conchiglie

La temperatura mite spinge a dirigersi verso il mare. D’istinto, il curioso cercatore, passeggiando sul bagnasciuga, abbassa lo sguardo per vedere quali conchiglie siano state posate dalle onde, ma respirando l’orizzonte, finito il romanticismo dell’attimo, si accorge di quanta spazzatura vi si trova. Mozziconi di sigarette, scarpe, bottiglie, vetro, polistirolo, sacchetti di platica, boe sono solo alcuni esempi. Qualsiasi materiale solido abbandonato, scartato o perso in ambiente marino e costiero è definito rifiuto marino. Esso è una forma di inquinamento non confinata a quello che si può trovare passeggiando sulla spiaggia, ma che tocca tutti gli oceani assumendo diversi status: rifiuti galleggianti che solcano le onde, altri che, come meduse, si lasciano trasportare dalle correnti lungo la colonna d’acqua e infine quelli che sul fondo costituiscono un abbraccio soffocante.

2_Rifiuti-sulla-spiaggia.jpg

Esempi di rifiuti che si possono trovare su una spiaggia (Foto E. Turicchia)

Si tende a credere che i maggiori responsabili della spazzatura presente in mare siano le industrie ittiche e di spedizione. In realtà solo il 20% degli oggetti trovati può essere collegato direttamente a fonti “d’alto mare” come navi da pesca, navi da carico o da diporto. Il restante 80% deriva dalla terraferma: si tratta dei rifiuti abbandonati sulle spiagge, di quelli provenienti da scarichi industriali e agricoli, derivanti da una cattiva gestione dei rifiuti.

3_RifiutiOceani.jpg

Inquinamento degli oceani (What lies under Foto F. Rizkiyanto 2011)

La plastica come un diamante

Per produrre una bottiglia di plastica ci vogliono ore o giorni a seconda di quando facciamo partire il cronometro del processo produttivo. Ma quanto tempo trascorrerà prima che un oggetto abbandonato nell’ambiente marino si degradi? Per una bottiglia o un sacchetto di plastica ci vogliono addirittura centinaia di anni.

La parola plastica è usata per descrivere una serie di composti artificiali di diversi colori, forme e dimensioni. Le materie plastiche sono, infatti, dei polimeri, ossia lunghe catene di molecole, derivanti dal petrolio. Esse hanno caratteristiche, quali la malleabilità, la durabilità, la leggerezza e l’economicità, che le hanno rese un materiale diffuso e apprezzato. Tuttavia la leggerezza e la durabilità dal punto di vista ambientale rappresentano una minaccia. La leggerezza permette alla plastica di galleggiare e lasciarsi così trasportare dalle correnti e dal vento. La durabilità invece è legata al processo di degradazione. I rifiuti galleggianti di origine biologica sono sottoposti a biodegrazione. Immaginiamo di addentare una mela in una calda giornata estiva in barca. Finito lo spuntinopuò capitare che il torsolo cada involontariamente in mare. Quel torsolo navigherà dai 3 ai 6 mesi prima di biodegradarsi. La plastica di origine petrolchimica anziché  biodegradarsi, si fotodegrada, fatta eccezione per la bioplastica, plastiche che non derivano dal petrolio ma da materie prime rinnovabili e/o biodegradabili (per esempio da amido di mais, grano o patate). La fotodegradazione è un processo in cui la luce solare rompe la plastica in pezzi sempre più piccoli, da chicchi di riso a schegge così minute che è necessario un microscopio per poterle vedere. Per esempio, cosa succede se si lasciano le mollette per il bucato appese al filo per stendere? Col passare del tempo si osserva che la plastica, di cui sono composte, prima si schiarisce, per poi rompersi per effetto della luce solare e delle intemperie. La plastica di dimensioni minori a 5 millimetri è definita microplastica. Esistono due categorie principali di microplastiche: i frammenti di piccole dimensioni che si sono staccati da pezzi più grandi, come le bottiglie di plastica, tramite la fotodegradazione e l’azione meccanica delle onde; e le piccole sferette di plastica che vengono aggiunte a prodotti cosmetici con la finalità di dermoabrasione leggera, il famoso scrubs. Diverse case cosmetiche negli ultimi anni sono state sensibilizzate su questa problematica e hanno bandito l’uso delle microsfere nei loro prodotti.

5_Microplastiche.jpg

Microplastiche (SEA2 S. Moret)

Quindi, la possibilità di galleggiare unita ai lunghi tempi di degradazione rendono la plastica persistente ed impattante per l’ambiente. Le materie plastiche ormai sono presenti in tutti gli oggetti che usiamo quotidianamente, la produzione mondiale è di circa 200 milioni di tonnellate l’anno. Un numero difficile da comprendere, ma se si pensa che un camion a pieno carico pesa circa 20 tonnellate, ci vorrebbero 10 milioni di camion per arrivare a un peso tale! Ipotizzando poi una lunghezza di 12 m per questi camion, mettendoli in fila uno dietro l’altro potremmo compiere quasi 3 volte il giro della Terra! Cosa ce ne facciamo di tutta questa plastica? Circa metà della plastica prodotta è destinata alla produzione di articoli monouso o imballaggi che vengono buttati entro un anno. Una volta nell’ambiente bottiglie e sacchetti non biodegradabili richiedono dai 100 ai 1000 anni per decomporsi a seconda delle dimensioni e delle condizioni ambientali in cui si trovano. Ogni anno vengono consumati nel mondo da 500 a 1000 miliardi di sacchetti che sono stati usati per una media di 10-20 minuti. Molti paesi hanno messo al bando l’utilizzo di sacchetti di plastica monouso non biodegradabili e stanno favorendo l’uso di sacchetti realizzati con bioplastiche.

6_Stima_tempi_ degradazione.png

Stima dei tempi di degradazione di alcuni oggetti in mare (Riproduzione E. Turicchia)

L’isola che c’è

Peter Pan viveva in un’isola dove si resta sempre fanciulli, per arrivarci bisogna seguire la seconda stella a destra poi dritto fino al mattino. Nel Pacifico esiste invece un’Isola di rifiuti, divisa in due blocchi, tutt’altro che magica. La sua presenza fu ipotizzata nel 1988 dalla NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration), ma fu l’oceanografo americano Charles Moore ad imbattersi per primo nella Grande chiazza di rifiuti del Pacifico rientrando da una regata nelle Hawaii. L’isola di rifiuti anche detta zuppa di plastica è tenuta insieme dal Vortice Subtropicale del Nord Pacifico, una lenta corrente oceanica che si muove in senso orario a spirale tra l’Asia e gli Stati Uniti. Al centro di questo vortice i rifiuti galleggianti, provenienti principalmente dalla terraferma, trovando una zona relativamente di quiete, si aggregano tra loro e stazionano in una vasta area del Pacifico, formando un enorme accumulo di spazzatura. La sua estensione non è certa, non ha confini fisici rigidi e non è possibile una rilevazione aerea o via satellite poiché è composta per l’80% di piccole particelle di plastica, le microplastiche, in sospensione o appena sotto la superficie dell’acqua. Le stime della dimensione dell’isola, ricavate attraverso la raccolta di campioni, variano da una superficie maggiore della penisola Iberica a una maggiore di due volte quella degli Stati Uniti. Le concentrazioni massime di plastica in superficie raggiungono quota 1 milione di pezzi per chilometro quadrato.

Lo stato dell’arte

La plastica è stata inventata nella seconda metà dell’Ottocento e la sua diffusione di massa è avvenuta negli anni ’50, del secolo scorso ma la scienza che studia i rifiuti in mare è relativamente giovane e molte domande restano ancora senza risposta. Nel giugno 2014 l’ecologo marino Andreas Cózar e il suo team hanno completato la prima mappa dei rifiuti negli oceani. Non esiste solo un’isola di spazzatura, ma in corrispondenza dei cinque principali vortici subtropicali si accumulano decine di migliaia di tonnellate di rifiuti in plastica.  Le correnti oceaniche infatti funzionano come nastri trasportatori convogliando i rifiuti verso i rispettivi nuclei dei vortici dove si contano milioni di pezzi di plastica per chilometro quadrato. I ricercatori hanno mappato queste isole e rilevato milioni di pezzi di plastica. Tuttavia, si sono accorti che i conti non quadravano poiché dovevano esserci più pezzi di plastica galleggiante rispetto a quelli effettivamente rilevati. Dove sia al momento la plastica mancante è una domanda senza risposta, ma quattro sono le ipotesi che gli autori formulano: potrebbe essersi depositata a riva, ridotta a particelle così microscopiche da non essere stata raccolta, depositata in profondità per effetto del biofouling (deposito e accumulo di organismi viventi, unicellulari o pluricellulari, su una superficie) o infine potrebbe essere stata ingerita dagli organismi marini e quindi entrata nella catena alimentare. Anche l’effetto che questa plastica avrà nell’ecosistema oceanico rimane un problema aperto.

Bocconi indigesti

Aggrovigliamento e ingestione sono due dei principali tipi di danno diretto agli organismi marini causati dai rifiuti in mare. L’aggrovigliamento e il conseguente intrappolamento possono accadere per caso o perché l’animale è attratto da un oggetto come parte del suo comportamento naturale: curiosità, ricerca di cibo o riparo. L’animale può riportare difetti di crescita o motori, ferite o restare intrappolato perché non in grado di ritrovare la via di uscita. Reti abbandonate (ghost nets  – reti fantasma) trasportate alla deriva dalle correnti a mezz’acqua o sul fondo continuano a catturare pesci e diventano trappole per i mammiferi e le tartarughe marine in cerca di cibo.

9_ReteTartaruga.jpg

Le reti da pesca abbandonate possono essere una minaccia non solo per i pesci ma anche per mammiferi

L’ingestione di rifiuti invece avviene perché generalmente gli animali li confondono per cibo. Le tartarughe marine per esempio sono ghiotte di meduse. Le vedono danzare delicate nell’acqua e non possono resistere ad un tale boccone. Ma un sacchetto di plastica fluttua proprio come farebbe una medusa diventando una potenziale minaccia  per la vita della tartaruga. L’ingestione di un sacchetto infatti può occludere l’intestino e nei casi più gravi portare alla morte dell’esemplare.

10_Somiglianza-tra-sacchetto-di-plastica-e-medusa-Foto-NOAA.jpg

Somiglianza tra sacchetto di plastica e medusa (Foto NOAA)

Inoltre, le microplastiche possono essere confuse con pesci allo stadio larvale, uova, piccoli granchi. Pesci e uccelli le mangiano per errore. Piccole plastiche possono accumularsi nel tratto digerente provocando una fasulla sensazione di sazietà nell’animale che non è più stimolato a procacciarsi il cibo con conseguente malnutrizione. I piccoli pesci inoltre sono un anello importante della catena alimentare. Da un lato essi si cibano involontariamente di plastica e dall’altro sono fonte di cibo per predatori più grandi. La plastica così si trasferisce lungo la rete trofica.

1072961958

Tartaruga marina mentre mangia plastica

Ulteriori danni all’ambiente marino ed ai suoi abitanti sono provocati da quella spazzatura che rovina l’habitat costiero. Le reti fantasma possono dragare il fondo, per esempio i reef corallini, perturbando la flora e la fauna che in esso vive. In acque basse, i rifiuti impediscono in parte ai raggi solari di penetrare inibendo il processo fotosintentico di piante e alghe. I materiali plastici possono poi accumulare inquinanti come i PCB (policlorobifenili, inquinanti persistenti caratterizzati da una bassa solubilità in acqua) ad alte concentrazioni, da 100.000 a 1.000.000 volte maggiori dei livelli riscontrati in acqua di mare. È stato rilevato infine che i materiali fluttuanti sono spesso colonizzati da altri organismi come piccoli crostacei, alghe e batteri. Le correnti oceaniche li trasportano in aree dove sono assenti facendosi così vettori di specie aliene (specie vivente che colonizza un territorio diverso dal suo areale).

Per approfondire

Anni di plastica per i quali è necessario trovare soluzioni e sensibilità. È una sfida per la scienza sviluppare materiali meno impattanti per l’ambiente e nuove tecniche per smaltire i rifiuti; ma ognuno di noi che, scostata l’indifferenza, può informarsi ed adottare comportamenti virtuosi. Qui di seguito sono riportati alcuni siti e documenti per approfondimenti sul tema:

How Does Plastic Pollution Affect Marine Life and How Can We Reduce It?

How Does Plastic Pollution Affect Marine Life and How Can We Reduce It?

NOAA National and Oceanic and Atmospheric Administration, documento sullo stato dei rifiuti negli oceani.

National Geographic Education, slide e curiosità sul problema delle microplastiche.

Articolo di Còzar et al., PNAS, 2014.

EU European Union, documento comunitario sui rifiuti.

Video ed informazioni su REMORA, rete da pesca biodegradabile con sensori di rintracciamento.

Progetto GHOST sugli impatti degli attrezzi da pesca abbandonati nel Nord Adriatico.

Greenreport.it articolo sulla spedizione scientifica italo-francese nel Santuario dei Cetacei.

A cura di Eva Turicchia