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La corsa ai metalli in fondo al mare

04 dicembre 2024
7 min di lettura
04 dicembre 2024
7 min di lettura

La crescente domanda di minerali critici, come nichel, cobalto, rame e terre rare, utilizzati per la transizione energetica e per la produzione di dispositivi elettronici, ha intensificato l'interesse per l'estrazione mineraria in acque profonde (deep-sea mining). Tecnologie come pannelli fotovoltaici, auto elettriche e turbine eoliche, contengono, infatti, questi componenti, essenziali anche per dispositivi come smartphone, computer e altri apparecchi. Le vaste risorse presenti sui fondali marini, spesso superiori alle riserve terrestri, hanno attirato l'attenzione di Paesi come Cina, Giappone, Corea del Sud e India, dove sono concentrate industrie altamente dipendenti da tali minerali. La corsa all’approvvigionamento di questi minerali è diventata una questione centrale nella competizione geoeconomica, che vede principalmente USA, UE, Giappone e Corea del Sud provare a districarsi dall’attuale dipendenza nei confronti della Cina, che controlla buona parte delle filiere legate alle tecnologie low-carbon. Tuttavia, un aumento della domanda ha sollevato preoccupazioni sugli impatti ambientali delle operazioni nei fondali e sull’efficacia dei quadri normativi attuali nel mitigarli.

Quali risorse?
Sul fondale marino si trovano tre concrezioni minerarie d’interesse estrattivo: i noduli polimetallici o “di manganese”, le croste di cobalto e i solfuri. Ognuno di questi ha condizioni di formazione e proprietà differenti.

Noduli polimetallici. Contengono elevate concentrazioni di manganese, nichel, rame e cobalto. I noduli di manganese si trovano nei bacini profondi dove c’è scarsa sedimentazione, e quindi il fondo “cresce” a velocità bassissime, fino ad 1mm ogni mille anni. Questo permette la formazione dei noduli sul fondale tramite la precipitazione particolarmente lenta di metalli. Il processo estrattivo implica quindi la disgregazione della superfice superiore del sedimento, con la rimozione dei noduli.

Croste di cobalto. Hanno uno spessore che tipicamente si aggira tra i 10 e i 15 centimetri (ma può arrivare fino ai 25) e coprono i versanti delle montagne sottomarine dell’oceano Pacifico occidentale, a una profondità compresa tra gli 800 e i 2.500 metri. 

Solfuri polimetallici. Spesso trovati nelle zone caratterizzate da attività vulcanica ed espansione dei fondali, in prossimità delle faglie tettoniche, sono grumi di oro, zinco, piombo, rame e terre rare.  

Come viene regolata l’estrazione mineraria in acque profonde?
L'estrazione mineraria in acque profonde è regolata dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (United Nations Convention on the Law of the Sea - UNCLOS) e dall'Autorità internazionale dei fondali marini (International Seabed Authority - ISA). L'UNCLOS definisce i fondali marini al di fuori delle giurisdizioni nazionali come "patrimonio comune dell'umanità", richiedendo un codice minerario internazionale per regolamentare l'esplorazione e lo sfruttamento delle risorse. L’ISA, che comprende 169 Paesi e l’Unione europea con sede a Kingston, in Giamaica, è responsabile della supervisione del 54% dei fondali marini del mondo e della concessione di particolari licenze per l’esplorazione mineraria (rilasciate solo dopo approfonditi iter autorizzativi) a entità pubbliche, o private, che vogliano sondare le ricchezze minerarie nelle profondità degli abissi oceanici. Tuttavia, i negoziati per l'adozione di un codice minerario sono in stallo a causa di divergenze tra gli Stati membri, in particolare per quanto riguarda la protezione ambientale. Da un lato, l’approccio precauzionale, introdotto dalla Dichiarazione di Rio del 1992, guida le politiche della ISA nel prevenire danni ambientali anche in assenza di certezze scientifiche, dall’altro la pressione economica di Stati e aziende pronte a sfruttare le risorse dei fondali potrebbe comprometterne l’efficacia, influenzando la governance globale a scapito della sostenibilità. L’ISA dovrebbe inoltre considerare gli impatti cumulativi delle attività minerarie su scala più ampia, al di là delle aree direttamente interessate. La mancanza di dati quantitativi e di una solida base scientifica, però, rende difficile sviluppare regolamenti efficaci e strategie di monitoraggio adeguate a mitigare gli impatti ambientali.

Nel gennaio dell’anno in corso, il parlamento norvegese si è assicurato la maggioranza per l’approvazione del piano di apertura del Mare di Barents e del Mare della Groenlandia all’esplorazione mineraria dei fondali marini. Puntando sulle sue conoscenze geologiche avanzate e sulle tecnologie di drilling offshore, ha giustificato l’iniziativa con il supporto alla “transizione energetica”. In questo scenario, la governance globale di queste attività potrebbe cedere il passo agli interessi dei singoli Paesi, con un chiaro punto interrogativo a lungo termine sulla protezione dei fondali oceanici.

Impatto ambientale: un ecosistema fragile in pericolo
I fondali marini sono ambienti in gran parte inesplorati e spesso considerati un luogo ‘disabitato’, proprio a causa della profondità e della mancanza di luce. Al contrario di quello che comunemente si pensa, le profondità degli abissi sono brulicanti di vita e ospitano una delle più elevate concentrazioni di biodiversità del mondo. Gli stessi minerali sono componenti essenziali di questi ecosistemi, alla base della catena alimentare oceanica. Si stima che oltre 230.000 specie abitino questi ambienti e studi suggeriscono che l’estrazione potrebbe portare all’estinzione di molte di esse e di altre non ancora scoperte. Gli effetti a lungo termine non sono ancora compresi, ma stime indicano che le comunità marine potrebbero impiegare decenni o addirittura secoli per riprendersi, se non perdersi del tutto. La perdita di biodiversità, la dispersione di sedimenti tossici e l’interruzione di processi ecologici vitali (anche per la terraferma), come lo stoccaggio del carbonio, sono tra le principali preoccupazioni evidenziate dagli studi scientifici.  

Durante le operazioni minerarie, il sollevamento di sedimenti genererebbe nuvole di particelle che possono diffondersi su vaste aree, fino a 100 chilometri di distanza dalla zona di estrazione, bloccando filtri naturali e riducendo il cibo per le comunità microbiche, cruciali per la salute dell’ecosistema, con conseguenze sul cambiamento climatico stesso. Infatti, alcuni microrganismi svolgono un ruolo essenziale nella regolazione del ciclo del carbonio e nel sequestro del metano, un potente gas serra e la loro presenza sui noduli polimetallici contribuisce a stabilizzare la chimica dell’oceano rimuovendo metalli tossici dall’acqua. 

L’idea di prelevare risorse dalle profondità oceaniche, inoltre, è in contrasto con la transizione verso un’economia circolare, che punta a un aumento del riciclaggio e alla riduzione dell’uso di risorse. Secondo il rapporto del WWF “The future is circular”, grazie all’innovazione tecnologica e all’economia circolare è possibile ridurre la domanda di minerali critici dal 20 al 58 % da qui al 2025. Considerando che il primo agosto (data dell’Earth Overshoot Day) abbiamo esaurito le risorse che avremmo avuto a disposizione e per un anno, si evince che passare a un modello circolare sia l’unico modo per assicurarsi risorse in futuro.

Alla luce delle implicazioni ambientali dell’estrazione mineraria dei fondali marini, è chiaro che ci troviamo di fronte a una scelta cruciale. Da un lato, la transizione ecologica richiede metalli e risorse, i quali si possono trovare in abbondanza sui fondali oceanici; dall’altro, gli ecosistemi marini profondi rappresentano una delle ultime frontiere naturali relativamente intatte del pianeta, il cui solo 5% è stato topograficamente mappato, e il loro sfruttamento potrebbe avere conseguenze irreversibili.