“La cosa importante è sapere come prendere ogni cosa semplicemente“. È questa una delle frasi più famose di Michael Faraday, uno scienziato che della semplicità ha saputo ammirevolmente fare tesoro. Nato nel 1791 da una famiglia di umili origini – suo padre faceva il maniscalco – in un sobborgo nel sud di Londra, il giovane Michael crebbe a contatto con la Chiesa Sandemaniana, una minoranza cristiana i cui precetti ebbero certamente un ruolo nella formazione del giovane chimico-fisico, che vedeva nello studio della natura un modo per “scoprire le manifestazioni di Dio”. Basata su un’interpretazione letterale delle Bibbia e vicina al Cristianesimo delle prime origini, la setta di Robert Sandeman si distingueva per il disinteresse per i beni materiali, per un forte spirito di fratellanza e per un’incrollabile fede nell’aldilà.
Ultimo di tre fratelli, Faraday ebbe un’istruzione piuttosto rudimentale e fu costretto fin dalla giovane età a fare i conti con la fame e la sopravvivenza. La salute cagionevole del padre, se possibile, aggravò le condizioni della famiglia e Michael, appena tredicenne, iniziò a lavorare presso George Riebau, un librario e giornalaio che gli diede l’opportunità non solo di imparare il mestiere di rilegatore, ma anche di avere tra le mani un’enorme quantità di testi e di incontrare moltissimi personaggi dell’epoca. Questo tipo di botteghe all’epoca erano molto diverse da come sono oggi: erano infatti non solo laboratori dove i libri venivano rilegati e venduti, ma anche luoghi di incontro per gli intellettuali dell’epoca. E fu proprio in questi anni che Faraday iniziò a interessarsi di scienza. Tra i tanti libri che il futuro scienziato maneggiò – e lesse – ebbe un ruolo centrale l’Enciclopedia Britannica, in particolare alla voce “Elettricità”.
Siamo nel secolo immediatamente successivo a quello dalle prime grandi scoperte legate all’elettricità, dagli esperimenti di Franklin con i fulmini a quelli di Galvani con le rane, in tempi in cui la scienza era vissuta con una certa teatralità e in cui i grandi scienziati tenevano lezioni pubbliche in cui mostravano i propri esperimenti con uno stile quasi performativo. E fu così che, grazie all’aiuto di un cliente della bottega, nel 1812 Faraday ebbe la possibilità di frequentare le lezioni pubbliche di uno degli scienziati più famosi dell’epoca, il chimico Humphry Davy, direttore della Royal Society. Per il nostro Michael fu vera e propria manna dal cielo e forse proprio per questo, grazie anche alla sua curiosità e al suo spirito di iniziativa, fu in grado di fare fruttare questa opportunità più di chiunque altro. Egli, infatti, non si limitò ad assistere alle lezioni, ma annotò forsennatamente ogni singolo stimolo, riprodusse alcuni esperimenti in una parte della bottega messa a disposizione da Riebau, produsse quindi un volume di circa 300 pagine e lo fece avere a Davy in persona. L’illustre scienziato rimase così colpito dall’opera di Faraday, che decise di assumerlo come proprio assistente. Siccome la fortuna aiuta gli audaci, poco dopo, uno degli assistenti della Royal Institution fu licenziato e Davy assunse al suo posto proprio Faraday. Da qui in avanti la carriera dell’ex rilegatore fu un susseguirsi di successi, a cui il giovane scienziato arrivò superando una serie di ostacoli tra cui, non ultimi, quelli legati al pregiudizio determinato dalla sua estrazione sociale. Nell’Inghilterra del XIX secolo, fortemente classista, la scienza era infatti appannaggio dei ceti privilegiati e il successo di un ragazzo dalle umili origini non era visto di buon occhio. Tuttavia, nonostante le umiliazioni subite, come ad esempio quelle agite dalla moglie di Davy durante un viaggio in Europa in cui Faraday ebbe l’opportunità di conoscere l’élite scientifica dell’epoca, l’ormai quasi ventenne Michael riuscì a tirare dritto per la propria strada nel 1816 pubblicò il suo primo articolo scientifico.